I sogni sfiorati a Rebibbia
“ Voi ce l’avete un sogno nel cassetto? Da piccole, cosa sognavate? ”
Le donne iniziano a ridere, si guardano l’un l’altra. Una di loro, capelli lunghi e sguardo severo ci guarda e sogghignando risponde: “ Oh si, certo che sognavo! Sognavo di trovare una casa piena di diamanti e un uomo ricco! O di saper rubare, ecco si…se sapevo rubare magari non stavo qui!” Risate generali, nessuno di loro sembra voler prendere sul serio la domanda. La donna dai capelli lunghi improvvisamente si fa seria e smettendo di ridere dice : “ Voi pensate che i bambini italiani e i bambini zingari abbiano veramente gli stessi sogni? I bambini italiani sognano di diventar medico, avvocato o chissà cos’altro. I bambini zingari…bè, sognano di crescere per andare a rubare.” Ancora risate.
Giovanna mi guarda, lei fa la volontaria nel carcere da 20 anni, e da 20 anni vive le vite delle detenute mamme che scontano la pena con i propri figli qui a Rebibbia. In quel momento mi chiedo cosa pensi, se è arrabbiata o semplicemente rassegnata all’idea che queste donne si siano arrese ad una realtà che le vuole in ginocchio, senza via d’uscita. A quel punto è lei che prende la parola:” Certo, facile così! Non ci credo, non ci credo che voi non sognavate da bambine. Non ci credo che sognate questa vita per i vostri figli. Che vi credete, che tra i bimbi italiani non ci sia chi pensi di andare a rubare? Ci sono! Come ci sono tanti altri che vogliono fare i calciatori o gli astronauti. Non potete pensare che non ci sia un’alternativa, o volete questo per i vostri figli?” Le risate si fermano per un istante, ho la sensazione che alcune di loro abbassino lo sguardo verso il figlio che tengono in braccio , lo abbracciano. Una ragazza di poco più di 20 anni, come se quelle parole l’avessero destata da un lungo sonno, urla : “ Mio figlio va a scuola! Ed è bravo! Io non andavo a scuola, non so leggere né scrivere, lui si. Non farà la stessa vita.”
Maria Rita, psicologa e volontaria , cerca di incrociare gli sguardi delle ragazze, di riportarle al loro sogno. Una di loro, alla quale il tribunale ha appena rigettato la richiesta di arresti domiciliari, quasi bisbigliando dice: “ Io un sogno ce l’avevo…volevo diventare una principessa!” Le risate aumentano, i bambini nel frattempo corrono qua e la nella piccola stanza che hanno a disposizione per giocare e mangiare. Maria Rita ascolta la ragazza parlare, le racconta che c’è stato un giorno in cui forse si è sentita un po’ una principessa, è stato quando si è sposata. “ Furono due giorni bellissimi”.
Accanto a me c’è una ragazza dalla pelle dorata, non partecipa alle risate. “Sono l’unica non Rom qui, sono nata in Italia ma i miei genitori vengono dal Marocco. È una settimana che sono in carcere con mio figlio. Anche io avevo un sogno sai? Sognavo di diventare una donna d’affari! Avere una mia attività. E ci ero quasi riuscita…ma adesso, adesso ci siamo fermati”. La vedo trattenere le lacrime, si aiuta prendendo per mano il figlio. Ci riesce, gli occhi ritornano asciutti. Chissà quante volte ha fatto questo stesso sforzo, quante volte ha ingoiato il sale di quelle lacrime per proteggere il figlio.
La sala si è riscaldata, le puericultrici, che quotidianamente assistono i bambini, si uniscono a noi e ci preparano il tè. L’imbarazzo iniziale sembra affievolirsi.
Daniela, avvocato e anche lei volontaria, racconta di come neanche per lei sia stato facile diventare avvocato, la sua famiglia non poteva permettersi di pagarle tutti gli studi. “Non pensate che essere italiane basti, per me fu difficilissimo. Solo una cosa sapevo, che volevo aiutare gli altri facendo l’avvocato, e tutti i miei sforzi si focalizzarono su quello”. Una ragazza, forse la più giovane, ci pensa e dice: “ In effetti sappiamo cucinare. Una volta che fai un figlio c’è poco da fare, devi imparare!” E ha ragione, sanno cucinare. I tavolini sono pieni di piatti che hanno preparato per l’occasione, crostate, ciambelloni , frittelle , biscotti e patate al forno. Daniela allora coglie la palla al balzo ed esclama: “ Perché non create un libro di ricette! Non crediate che tutti sappiano cucinare, io per esempio zero!” Risate generali, niente da fare, per un attimo sfiorano il sogno, ma si svegliano subito, sembrano dire “ Ti pare che mi metto a fare un libro? Io con otto figli? Io con un figlio in carcere? Io che non so leggere né scrivere? Io che sono una zingara.”
Una delle ragazze più giovani mi sfiora la spalla e sorridendo mi fa : “ Balliamo!”
Chiediamo il permesso all’ agente, Giovanna prende lo stereo e le ragazze i cd. Una di loro chiede una sciarpa, Maria Rita se la leva dal collo e gliela porge. La ragazza se la annoda attorno alla vita e spinge play. Inizia a muoversi a tempo, si alza leggermente la maglietta e mi fa “ devi fare così! Muovi quel sedere! Ogni sera ti metti davanti allo specchio e ti muovi, è un lavoro lungo ma puoi farcela!” Rido imbarazzata, penso che sia carino da parte sua non farmi notare la mia totale incapacità di coordinazione. Le altre nel frattempo battono le mani e urlano il nome di una ragazza che sembra Pocahontas, con i capelli neri neri raccolti in una treccia lunghissima. “Lei è bravissima” dicono. La riconosco, è la ragazza di cui mi aveva appena parlato Giovanna, due giorni fa ha subito una brutta operazione. La vedo mettersi al centro della pista, sistemarsi la treccia e arrotolarsi la veste. Le serve solo qualche istante, chiude gli occhi e inizia a muoversi. Balla, e con lei ballano tutte le altre.
Le nostre ore insieme finiscono così, tra le note di una canzone rumena che chissà quando mai mi capiterà di riascoltare. Le ragazze ci ringraziano e i bambini fanno ciao ciao con la manina. Noi usciamo, loro restano.
Giovanna mi ha sempre detto che le donne in carcere sono meno comunicative degli uomini, le donne non si aprono facilmente, ci mettono molto più tempo. Parlare del sogno era un modo per trovare un canale di comunicazione, qualcosa che ricordasse loro che sono ancora in tempo per ricominciare. A vederle così tutte insieme, ammassate in una stanza colorata con i loro figli, non diresti che sono tristi. Ma neanche felici. Quando Maria Rita ha pronunciato la parola sogno, hanno riso si, ma per un attimo hanno anche sperato. Se non fossero costrette a scontare la pena con i figli dentro una cella, ma magari dentro una casa famiglia con spazi e tempi più umani, forse quell’attimo potrebbe durare di più. Se ci fosse la possibilità di far partire progetti, perché no anche un semplice libro di ricette, forse smetterebbero di pensare che a loro non è concesso il lusso di sognare.
Frantz Fanon, psichiatra e filosofo francese parlando del sogno pronunciò queste parole : “ La vita immaginaria non può essere isolata da quella reale: sono il concreto, il mondo oggettivo, a nutrire costantemente, a permettere, legittimare e fondare l’immaginario. L’immaginazione, l’immaginario sono possibili solo nella misura in cui il reale ci appartiene.”
Credo sia per questo che la parola sogno le ha fatto sorridere. Come possono sognare se non vivono? Il sogno di Leda era quello di creare strutture in cui queste donne potessero vivere, e perché no, anche sognare.
Marica Fantauzzi